Department of Political Studies - University of Catania

Jean Monnet Chair of European Comparative Politics


Jean Monnet Working Papers in Comparative and International Politics


 Fulvio ATTINA'

University of  Catania

I Processi di Integrazione Regionale nella Politica Internazionale Contemporanea


May 2002 - JMWP n° 41


 

Il sistema mondiale contemporaneo è il primo sistema internazionale che conosce processi di organizzazione politica a livello macro-sistemico e a livello micro-sistemico o regionale. L’organizzazione dei sistemi politici regionali assume forme e contenuti diversi che vanno dalla cooperazione al conflitto. L’esistenza di processi integrativi appare caratterizzare alcune regioni più di altre e si manifesta in un numero crescente di regioni. Per questa ragione, gli studiosi di politica si occupano crescentemente di questo fenomeno e hanno posizioni diverse riguardo all’intensità del fenomeno stesso. Questo studio osserva diversi aspetti dell’integrazione regionale e si pone l’interrogativo della comparazione dei processi integrativi regionali. In particolare, esso si occupa di quattro argomenti: il regionalismo nell’analisi politica internazionale, l’unità del sistema politico mondiale e la divisione in teatri regionali, l’oggetto della comparazione dei processi integrativi regionali e i sistemi regionali di sicurezza.

Il regionalismo nell’analisi politica internazionale

1.1 Il termine “regione internazionale” è entrato nell’analisi politica internazionale all’inizio degli anni Sessanta in seguito al processo di decolonizzazione. Si è allora riconosciuta la diversa sensibilità che i sottosistemi geografici di stati hanno nei confronti di processi in atto a livello globale. Negli anni Sessanta questo significava refrattarietà del mondo extraeuropeo alle alleanze del mondo bipolare. Le relazioni politiche a livello regionale erano considerate più importanti delle relazioni di natura economica (vedi per tutti Cantori and Spiegel, 1970). L’unica eccezione era rappresentata da Ernst Haas (1958 e 1964) e dall'attenzione dei (neo)funzionalisti alla cooperazione economica tra i paesi dell'Europa occidentale.

Gli studi sul regionalismo nell’analisi politica internazionale cominciano a considerare importanti le relazioni economiche e la formazione di organizzazioni di cooperazione economica regionale - il cosiddetto “regionalismo economico” – negli anni Ottanta (Coleman and Underhill, 1998; Fawcett and Hurrell, 1995). Solo negli anni Novanta, infine, si sviluppa l’analisi dei “complessi regionali” di sicurezza (Buzan, 1991; Solingen, 1998)

Questi cambiamenti di prospettiva sono stati spiegati soprattutto con i cambiamenti del sistema sotto l'impatto dell’interdipendenza economica (Keohane and Nye, 1989). Successivamente si è preferito usare il termine “processo di globalizzazione”, aggiungere altre dimensioni a quella economica e dare per assodata l’alta permeabilità dei confini statali. Si è detto: i problemi del sistema globale non sono gestibili e risolvibili solo con politiche statali ma necessitano politiche multinazionali o di macrolivello. Problemi come l'inquinamento, le migrazioni e il crimine transnazionale obbligano i governi a perseguire soluzioni concordate. Le scelte politiche di uno stato nei confronti di un problema - cioè la sua scelta di una soluzione legislativa o la rinunzia a una politica legislativa in materia, ad esempio, ambientale o repressione della criminalità - hanno effetto sugli altri stati.

Applicato alle regioni, l’argomento è grosso modo il seguente: i problemi generati dalla globalizzazione danneggiano o beneficiano ugualmente i paesi di una regione. La globalizzazione, quindi, accresce le somiglianze dei paesi di una regione e approfondisce le differenze tra gruppi regionali. L'effetto generale della globalizzazione sulle relazioni internazionali all'interno di una regione è soprattutto una spinta alla cooperazione intergovernativa per trovare le stesse soluzioni o concordare soluzioni comuni da parte degli stati di una regione perché le soluzioni concordate sono probabilmente molto più efficaci delle soluzioni individuali.

Se quest’argomento è “giusto” – e, a mio avviso, in gran parte lo è – dobbiamo aspettarci, non solo l’aumento delle relazioni intraregionali, ma anche che le relazioni tra schieramenti regionali di stati siano più ampie che nel passato e che la politica del sistema internazionale era destinata ad arricchirsi di una dimensione di relazioni interregionali collettive sia nella forma delle relazioni economiche (cooperative e concorrenziali) o "gruppo a gruppo" – ad esempio, quelle tra Unione Europea e ASEAN – sia oltre la forma economica, come la Partnership Euro-Mediterranea, tra gli stati dell'Unione Europea e del Nord Africa.

L’attenzione posta sui cosiddetti problemi generati dalla globalizzazione è all'origine anche di studi sull’interdipendenza regionale che non rispettano la tradizionale concezione della continuità geografica. Alta interdipendenza, sorge, cioè, anche tra stati che circondano un mare: le regioni mediterranee. I mari interni (come il mar Baltico, il mar Mar Nero e il Mar Mediterraneo) e i bacini mediterranei (come il bacino comprendente il Golfo del Messico e il Caribe, e il bacino comprendente il Mare del Giappone, il Mare Giallo e il Mare Cinese Orientale) uniscono stati che, oltre i tradizionali legami con gruppi regionali "terrestri", sono indotti a sviluppare una politica regionale con gli stati che si affacciano sullo stesso mare. Sebbene meno simili fra loro e meno dotati di istituzioni e consuetudini comuni degli stati di una regione terrestre, gli stati di una regione mediterranea sono ugualmente accomunati dal bisogno di fronteggiare problemi comuni. I problemi del sistema globale colpiscono i paesi rivieraschi dello stesso mare mediterraneo nello stesso modo e li obbligano a concordare le soluzioni ai problemi comuni.

L’unità del sistema mondiale e la divisione in regioni

2.1 - Per la verità, il mondo è sempre stato diviso in grandi aree omogenee e fra loro discontinue ed è sempre stato percorso dal processo di unificazione che oggi chiamiamo globalizzazione. Le analisi di lunga durata dell’economia mondiale (à la Gunder Frank), della storia mondiale (à la Braudel), delle istituzioni mondiali (à la Modelski) e della world-system di Wallerstein, Cox e Chase-Dunn sono sempre andate in questa direzione. Nonostante ciò, abbiamo sempre preferito vedere il mondo come uno spazio nel quale gli stati si muovono come monadi. Solo oggi siamo più inclini ad ammettere che il mondo è fortemente frammentato in teatri geografici nei quali l’interazione e l’interdipendenza tra gli stati è maggiore e specifica.

Il mondo, insomma, ci appare sotto l’effetto di alcune cause (ed incentivi) di frammentazione che sono meno forti di alcune contro-cause (ed ostacoli) di unificazione. Secondo la nostra visione del mondo, diamo più peso alle une (prima visione) o alle altre (seconda visione) oppure le consideriamo in equilibrio (terza visione).

Spieghiamo (prima visione) la frammentazione principalmente con tre cause/incentivi di natura rispettivamente economica, politica e culturale:

(1)     il diverso insediamento dell’economia capitalista che ha diviso vaste parti del mondo in aree economicamente simili,

(2)     le sistemazioni geopolitiche o di sicurezza internazionale a livello locale,

(3)     l’apertura/chiusura degli stati che produce in invito/resistenza alla penetrazione esterna.

L’intensità della divisione – che è rafforzata in alcuni casi da istituzioni intergovernative regionali che favoriscono la cooperazione nel campo economico e/o politico e/o della sicurezza – è comunque contrastata dal lungo processo di unificazione del mondo (seconda visione) che è fondato sulla pratica perenne degli scambi commerciali a lunga distanza e sulla conseguente formazione di istituzioni mondiali supportate dal potere politico (coercitivo e ideologico: eserciti, chiese, mode e modelli culturali) che danno al mondo un sistema politico. Queste istituzioni negli ultimi cinque secoli hanno dato vita ad un’organizzazione politica globale guidata da uno stato-potenza globale e nell’ultimo secolo anche a organizzazioni intergovernative e regimi internazionali.

Queste istituzioni tendono a ridurre il peso della discontinuità regionale ma questa reagisce ed è destinata a conservarsi (terza visione) grazie alla formazione di reti di cooperazione regionali con le quali i governi rispondono alle trasformazioni di scala dei mercati nell'economia contemporanea e ai rischi e alle minacce locali alla sovranità e alla sicurezza statale senza sottrarsi all’unitarietà del sistema mondiale.

2.2 -        Cause e incentivi della cooperazione regionale si riassumono nella crescita di relazioni umane e sociali sotto l'effetto dello sviluppo tecnologico applicato soprattutto alle comunicazioni, ai trasporti e all'economia e – questo lo dice soprattutto l’esperienza europea - nella crescita di politicizzazione, cioè nell’aumento della regolazione delle attività umane attraverso decisioni del sistema politico.

Il progresso tecnologico ha reso le comunicazioni istantanee, i trasporti velocissimi e il passaggio dei confini statali facile e in moltissimi casi incontrollabile da parte dei governi. Gli effetti non sono limitati al campo economico e della vita materiale, ma si estendono a quello culturale e associativo. Il mondo non ha mai conosciuto un livello così alto e crescente di interpenetrazione culturale e di solidarietà transnazionali legali e illegali. In queste condizioni si trovano immersi gli stati di oggi e i loro governi che non controllano né il mercato delle risorse alle quali devono fare ricorso nell'esplicazione delle loro funzioni né i teatri nei quali si producono i processi che influiscono sulle loro funzioni di governo, cioè gli effetti nel territorio statale di azioni e processi esterni. E’ ben vero che questo controllo non è mai stato pieno e completo in passato e per tutti gli stati, ma oggi esso è sceso a livelli notevolmente più bassi di quelli del passato.

La crescita di politicizzazione (nel mondo occidentale) ha prodotto l’aumento del numero delle regole emesse dal sistema politico ed ha allargato il numero dei settori disciplinati dall’intervento dello stato. Sono aumentate la domanda di regolazione collettiva ed autoritativa e la domanda di servizi dello stato per rispondere ai diritti sociali dei cittadini (previdenza sociale, sanità, istruzione, mobilità fisica, abitazione e comfort, pluralismo sociale, etc.). Nel fornire risposte a tali domande e assolvere le sue funzioni, nessun governo si può sottrarre dal chiedere la collaborazione di altri governi perché nessun governo dispone di tutti i beni e le risorse necessarie a fornire risposte a tutte le domande dei cittadini e, comunque, non ne controlla lo scambio e il mercato. La politicizzazione ha - perciò - un diretto collegamento con l'esterno, impone - come avevano previsto Mitrany e altri studiosi nel periodo tra le due guerre mondiali - la cooperazione funzionale tra gli stati. Impone, cioè, non più solo la cooperazione politica e militare per conservare la sovranità politica e la sicurezza territoriale, ma anche la cooperazione in tutti quei campi economici e tecnici con i quali un governo svolge le sue funzioni di guida dello stato.

Soprattutto l’esperienza europea ci dice anche che la cooperazione regionale è un fattore di alterazione dello stato sovrano o, se si vuole, della sovranità statale. E’, in altri termini, un fenomeno evolutivo degli stati e – di conseguenza – un fenomeno evolutivo del sistema mondiale.

La comparazione: l’integrazione europea è un caso unico e pietra di paragone o il prototipo di una nuova specie?

3.1 -        Queste trasformazioni provocano gli effetti più evidenti e richiedono le risposte più urgenti in quelle parti del mondo nelle quali c’è la più alta densità di stati economicamente e politicamente sviluppati ovvero in quelle parti del mondo nelle quali vi è un alto numero di stati con (1) un elevato livello di sviluppo economico, (2) un alto livello di politicizzazione della sfera sociale e (3) un’alta intensità di relazioni attraverso i confini statali. Questa congiuntura si è manifestata in Europa negli ultimi quarant'anni ed ha prodotto il processo d’integrazione economica e politica del continente.

3.2 -        Il processo di integrazione europea e la creazione delle Comunità prima e dell'Unione Europea dopo, appaiono oggi come risposta solo degli stati dell'Europa alle grandi trasformazioni del sistema globale. Di fronte alle tensioni prodotte dalla cresciuta regolazione politica interna, interdipendenza internazionale, globalizzazione della vita sociale e abbassamento dei confini statali, la risposta che sta prevalendo in Europa è un modello di riorganizzazione della politica che interviene sugli elementi essenziali dello stato come sistema politico perché questo, sotto l’effetto dei fattori politici e materiali riassunti nelle due “crescite” sopra citate, non può più avere solo le dimensioni del singolo stato nel quale le decisioni vincolanti per i cittadini sono interamente o quasi interamente prese da una sola autorità, cioè del governo dello stato unitario o centralistico.

Questo vuol dire che lo stato-nazione come tale oppure gli stati europei raccolti nell’Unione stanno per chiudere? No. Significa soltanto che gli europei - di fronte ai cambiamenti del mondo - stanno riorganizzando il sistema politico e riassegnando competenze regolative sia ai livelli di governo già esistenti sia a nuovi livelli di governo secondo la natura degli oggetti da regolare (vedi in proposito il tema del catalogo delle competenze nell’agenda della Convenzione Europea). La risposta dell’Europa, insomma, consiste nel riallocare l'autorità di fare regole politiche dotando anche un sistema politico comune (l'Unione Europea) dell’autorità di fare politiche per tutti.

Là dove vi è alta concentrazione di stati politicamente ed economicamente sviluppati, cioè in Europa, la risposta alle trasformazioni del mondo ha prodotto un sistema multistatale di governo stabile, articolato e democratico, cioè non solo una struttura intergovernativa di negoziato e accordo, ma un vero e proprio sistema politico dotato di  istituzioni di governo ed esecutive e di istituzioni di rappresentanza politica (parlamento) e di rappresentanza funzionale (comitati; fori di dialogo sociale, etc.) sicché il sistema politico dell’Unione Europea non è più sostanzialmente diverso dai sistemi politici degli  stati tradizionali. Gli stati europei, insomma - per continuare ad assolvere le loro funzioni conservando il consenso dei cittadini - sono obbligati dai cambiamenti materiali del sistema internazionale (interdipendenza, globalizzazione e abbassamento dei confini statali) e dai cambiamenti politici dei loro sistemi politici interni (espansione della regolazione politica e crescita della democratizzazione) a formare un sistema comune di governo dotato di istituzioni, che affianchino quelle statali, e di processi di policy-making, che si aggiungano ed integrino quelli statali.

3.3 -        La questione dell’analisi comparata è: la congiuntura che si è prodotta in Europa si sta producendo nel resto del mondo e avremo la stessa risposta o tante varianti della risposta europea (più o meno come è accaduto alla diffusione in tutto il pianeta dello stato inventato in Europa)? Oppure: le forme di integrazione regionale non europee già oggi sono specie fra loro diverse e sono destinate a rimanere tali?

La risposta dipende dalla visione del mondo. Definiamo due visioni alternative. La prima visione sostiene che non esiste una sola risposta possibile alle trasformazioni che mettono sotto pressione gli stati contemporanei nella loro capacità di assolvere da soli le loro funzioni tradizionali (prevalentemente d’ordine) e nuove (prevalentemente di welfare). Ogni regione svilupperà il suo modello d’integrazione regionale e non tutte le regioni praticheranno forme d’integrazione regionale. Le ragioni di questa visione sono nell’eterogeneità dei sistemi socio-politici degli stati e/o nella natura delle relazioni internazionali regionali. La seconda visione sostiene che le trasformazioni economiche e materiali ma anche quelle istituzionali ed ideologiche del mondo prevalgono sulle eterogeneità e i vincoli e promuovono l’omologazione o la quasi-omologazione rispetto a un unico modello di organizzazione politico-territoriale multi-statale.

Regionalismo e sicurezza: le partnerships regionali di sicurezza

La concezione tradizionale della sicurezza e della prevenzione dell’aggressione - che è all’origine della formazione delle alleanze militari e si fonda esclusivamente sulla dissuasione dell’aggressore mediante la certezza della punizione con la forza armata – è oggi affiancata dalla concezione che sia preferibile costruire sistemi regionali di sicurezza che non si basano esclusivamente sul rapporto di forza tra stati e alleanze. Sistemi regionali di sicurezza si possono costruire individuando le cause interne e internazionali della conflittualità nella regione e predisponendo misure preventive di natura internazionale ed interna che devono prevenire le crisi e i conflitti che possono destabilizzare la regione. Alla base dell’interesse degli stati contemporanei per accordi regionali di sicurezza vi è una nuova concezione di quale sia il modo migliore o preferibile di prevenire l’eruzione di violenza nel mondo contemporaneo causata dalle mire di governi che non si astengono dall’aggressione per risolvere i conflitti con gli stati vicini. Tale concezione si rifà al concetto tradizionale di sicurezza collettiva ma, a differenza di questa, tiene in conto un differente contesto mondiale e l’esperienza europea successiva agli anni Settanta che ha preso in considerazione sia le origini internazionali che quelle interne dei rischi di sicurezza in una regione.

Il contesto mondiale è quello di un’elevata interdipendenza e interconnessione tra i sistemi statali che rendono impossibile sia il contenimento degli effetti di una guerra internazionale, seppure limitata nel numero dei contendenti e nel ricorso alla violenza, sia il contenimento all’interno dei confini di uno stato dei suoi conflitti socio-politici e delle guerre interne.

L’esperienza maturata in Europa con il Processo di Helsinki all’ombra dei negoziati del controllo degli armamenti tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e la sperimentazione di pratiche di sicurezza cooperativa nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione europea (CSCE), successivamente istituzionalizzate nell’Organizzazione della sicurezza e cooperazione europea (OSCE), sono il punto di partenza di quella che appare come una nuova forma di coordinazione tra stati con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza internazionale a livello regionale.

Negli anni Novanta, altri casi si sono aggiunti a quello europeo riproducendone in parte le caratteristiche. In pratica, ci troviamo di fronte a una serie di processi di costruzione di regimi di sicurezza regionale che hanno in comune

(a)     la stessa concezione sulle origini interne e internazionali della sicurezza regionale e

(b)    la stessa forma complessa consistente in una serie di accordi politici, trattati e strutture organizzative comuni. Attraverso questa serie di trattati, accordi e strutture, i governi di una regione diventano partners nella gestione della sicurezza regionale.

Per questa ragione, il modo migliore di chiamare questo tipo di cooperazione regionale è partnership regionale di sicurezza. In concreto i casi oggi esistenti o in costruzione di accordi di partnership regionale di sicurezza sono:

1.       quello europeo che include tutti gli stati europei e post-sovietici. Costituito intorno all’OSCE, esso funziona anche mediante la NATO e, in un futuro forse prossimo, probabilmente anche mediante la PESD;

2.     quello centro-asiatico che include sei stati della regione noto come “Shanghai 5”. Esso è stato posto in essere dalla conferenza di Shanghai dell’aprile 1996 nella quale Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan definirono un accordo di sicurezza, al quale ha successivamente aderito l’Uzbekistan. Nel giugno 2001 i sei governi hanno dato vita all’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO) (Attinà and Zhu, 2001).

3.     quello sud-asiatico noto come Forum Regionale che oggi include 23 governi non solo asiatici, costituito su iniziativa dei governi membri dell’ASEAN nel 1994;

4.     quello euro-mediterraneo che include i 27 paesi della Partnership Euro-Mediterranea. Essi stanno attuando l’esecuzione del primo Capitolo sugli aspetti politici e di sicurezza della Dichiarazione di Barcellona (1995) e negoziando misure di confidence-building nel Mediterraneo (Attinà and Stavridis, 2001).

In termini formali una partnership regionale di sicurezza è costituita da una serie di accordi che includono uno o pochi accordi fondamentali e un certo numero di accordi operativi. Gli accordi fondamentali della partnership europea sono l’Atto Finale di Helsinki del 1975 e la Carta di Parigi per una nuova Europa del 1990; quelli della partnership centro-asiatica sono la Dichiarazione di Shanghai dell’aprile 1996 e la Dichiarazione costitutiva della SCO del 15 giugno 2001; l’accordo fondamentale della partnership sud-asiatica è la Prima Dichiarazione del Presidente del 1994; quello della partnership euro-mediterranea è il Capitolo sugli aspetti politici e di sicurezza della Dichiarazione di Barcellona del 1995. Negli accordi fondamentali vengono indicati i principi comuni che devono regolare le relazioni pacifiche della regione e vengono in genere indicati anche i principali problemi che minacciano la pace nella regione. Questi accordi costituiscono il primo passo della costruzione della partnership ma questa viene in esistenza solo quando sono messi in piedi gli accordi operativi nei quali sono indicate le misure concrete con le quali si intende affrontare i problemi della sicurezza di natura internazionale e interna. Un ulteriore passo concreto è la creazione di un’organizzazione fornita di strutture ed uffici con i quali prevenire e/o gestire le crisi e risolvere i conflitti in modo da allontanare i rischi di conflitto che mettono in pericolo la stabilità regionale e la sicurezza degli stati.

Nel sistema europeo di sicurezza le misure operative destinate a prevenire i conflitti interni e quelli internazionali hanno raggiunto il grado più avanzato di elaborazione. Sulla base di questa esperienza, possiamo dare le indicazioni che seguono. Le misure operative che servono a rafforzare le condizioni internazionali della sicurezza in una regione comprendono l’impegno di tutti gli stati della regione ed anche di stati esterni a:

·     creare e mantenere un quadro di sicurezza comune basato sul principio del rispetto reciproco;

·     creare corpi di intervento rapido in funzione dissuasiva dell’aggressore e restaurazione della sicurezza violata;

·     costituire una capacità militare e civile di gestione delle crisi.

Le misure che possono rafforzare le condizioni interne della sicurezza in una regione comprendono l’impegno degli stati economicamente avanzati e politicamente stabili della regione ed anche di stati esterni a:

·     fornire assistenza destinata a sostenere la stabilità politica interna basata sulla democrazia nella convinzione, supportata dall’esperienza, che i regimi democratici sono dotati di meccanismi che raffreddano le tentazioni aggressive;

·     fornire assistenza economica agli stati che ne abbiano bisogno e integrare i mercati nazionali in un’economia regionale stabile nella convinzione che la soddisfazione dei bisogni economici e il benessere economico collettivo abbassano le tensioni internazionali;

·     assistere le strutture della società civile degli stati nei quali queste sono deboli e sviluppare relazioni tra le società civili nella convinzione che il pluralismo sociale interno dia vita a società aperte e le relazioni sociali transnazionali siano il fondamento della comprensione internazionale e alimentino relazioni internazionali pacifiche piuttosto che violente.

Le partnerships regionali di sicurezza appaiono oggi come la trasformazione più importante delle pratiche internazionali con le quali gli stati collaborano per garantire la propria sicurezza. La partnerships regionali di sicurezza sono una novità sia rispetto ai sistemi di alleanza sia rispetto alle “comunità di sicurezza”.

Le alleanze militari sono costituite sul presupposto che la coordinazione delle forze militari e dei sistemi strategici degli stati membri accresca la loro sicurezza contro possibili aggressori. La creazione di un’alleanza militare implica la costituzione di una minaccia dissuasiva all’uso della forza da parte dell’avversario. A livello regionale, la creazione di alleanze innesca spesso la formazione di un sistema di alleanze contrapposte che da luogo a una corsa agli armamenti che aumenta i rischi di guerra ed è stabile solo a determinate condizioni tra le quali sono la persistenza delle preferenze dei governi e la stabilità politica e sociale interna oltre all’inclusione di tutti o quasi tutti gli stati della regione nel sistema delle alleanze, come è avvenuto in Europa fino al dissolvimento del Patto di Varsavia. Per questo motivo, la tenuta di un sistema regionale di alleanze si basa sulla ricerca di nuovi alleati o su incentivi alla neutralità. Seppure le preferenze dei governi e delle opinioni pubbliche dei paesi alleati si mantengono stabili, la ricerca di nuovi alleati e la prevenzione del cambiamento delle politiche di neutralità degli altri stati della regione rendono precaria la stabilità dei sistemi regionali di alleanze militari.

L’esperienza della partnership europea di sicurezza ha indicato una strada alternativa costruita prima sugli esperimenti di controllo e riduzione degli armamenti e successivamente sul negoziato tra le alleanze orientato a creare un sistema comune di sicurezza basato su misure di costruzione della fiducia reciproca e successivamente su quella che si definisce “sicurezza comprensiva e cooperativa”, cioè le misure operative dell’OSCE dopo la caduta del Patto di Varsavia.

La scelta della NATO di non contrapporsi all’OSCE ma di diventare parte importante del sistema di sicurezza comprensiva e cooperativa europea ha prevenuto fino ad oggi la ricostituzione di un sistema di alleanze contrapposte in Europa e ha consolidato l’opzione di un sistema di partnership regionale di sicurezza del quale sono formalmente parte tutti gli stati della regione. Tutti gli stati europei, infatti, fanno parte dell’OSCE e, fino ad oggi, gli stati non-membri della NATO hanno rinunziato a dar vita ad un’alleanza a questa contrapposta. Essi, cioè, hanno fino ad oggi dimostrato di preferire una partnership regionale inclusiva alla tradizionale politica delle alleanze contrapposte.

L’inclusività – ovvero la partecipazione di tutti gli stati di una regione o almeno l’esclusione di stati non sostanzialmente rilevanti per la stabilità della sicurezza regionale – è un carattere fondamentale di un sistema di partnership regionale. Per questo carattere, le parnerships di sicurezza sono più ampie e diverse dei sistemi di sicurezza noti come “comunità di sicurezza”. Nella definizione di Karl Deutsch una comunità di sicurezza è “un gruppo di paesi [people] che si sono integrati” (Deutsch et al., 1957: 5) attraverso un elevato flusso di transazioni e comunicazioni: essi si considerano membri di una comunità ed elaborano metodi ed istituzioni di soluzione pacifica dei loro conflitti fino al punto che la guerra diventa uno strumento obsoleto di soluzione dei loro conflitti. Le partnerships regionali di sicurezza, invece, sono formate da gruppi di stati nei quali il flusso delle comunicazioni e delle transazioni non è universalmente alto (cioè non vi è un alto livello di comunicazioni e transazioni tra tutti i membri del gruppo), esistono fratture e motivi di conflitto ma esiste anche la disponibilità espressa di creare istituzioni e meccanismi di gestione dei conflitti che riducono il rischio di soluzione violenta dei conflitti e la disponibilità di instaurare le condizioni dell’integrazione attraverso la crescita dei flussi di comunicazione e transazioni.

Gli studi di Karl Deutsch hanno dimostrato che la formazione di comunità di stati tra i quali si instaurano condizioni forti o assolute di sicurezza con la scomparsa dell’uso della violenza e della guerra per la soluzione dei conflitti di interesse dipende (i) da una elevata somiglianza culturale che facilita la crescita di scambi, transazioni sociali e flussi di comunicazione e quindi la formazione di una forte integrazione sociale e (ii) dalla creazione di istituzioni - sorrette dall’integrazione sociale - che, per conto degli stati, gestiscono cooperativamente i problemi comuni e le relazioni reciproche con metodi diversi dal conflitto armato. La vicinanza culturale è una causa importante dell’incremento degli scambi e dell’integrazione sociale e questa – a sua volta - sorregga le istituzioni internazionali che risolvono i problemi della sicurezza degli stati coinvolti. A partire dal Processo di Helsinki, però, la sicurezza europea è stata costruita con un processo diverso: un’istituzione informale come la CSCE e, successivamente, un apparato istituzionale vero e proprio come l’OSCE - insieme alle iniziative della NATO (nuovi membri, Partnership for Peace e Euro-Atlantic Partnership Council) e dell’Unione Europea (PESD e programma di allargamento) - hanno prodotto un sistema di sicurezza che giunge allo stesso risultato delle comunità di sicurezza senza partire dalle stesse condizioni di vicinanza culturale e alto livello di transazioni.

Nei casi studiati da Deutsch - tutti precedenti gli anni Cinquanta - le comunità di sicurezza esistono a livello potenziale e si materializzano quando danno vita ad istituzioni; al contrario, nei casi contemporanei di partnerships di sicurezza – il caso europeo (cioè l’insieme multi-istituzionale dell’OSCE, della NATO e dell’UE/UEO con i paesi dell’Europa orientale e gli stati baltici), i casi asiatici ancora in formazione e il caso mediterraneo ancora in gestazione – sono piuttosto le istituzioni, intenzionalmente create dai governi per gestire i rischi della violenza dei conflitti, a produrre le condizioni della sicurezza regionale. Le istituzioni sono il principale agente della costruzione di pratiche di sicurezza comune e di una cultura comune della sicurezza anche tra stati che appartengono a tradizioni culturali e di civiltà differenti [Adler and Barnett, 1998; Krause, 1999].

 

 

Riferimenti

Adler E. and Barnett M., eds. (1998), Security communities, Cambridge, Cambridge University Press.

Attinà F. and Stavridis S. eds. (2001), The Barcelona Process and Euro-Mediterranean issues from Stuttgart to Marseille, Milano, Giuffrè

Attinà F. and Zhu G. (2001), Security culture and the construction of security partnerships: the European Union and China compared, in “The Mediterranean Journal of Human Rights”, vol.5, 85-110..

Buzan B. (1991/1983), People, States, and Fear, Brighton, Harvester

Cantori L.J. and Spiegel L.S. (1970), International relations of regions: a comparative approach, Englewood Cliffs, Prentice-Hall.

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Krause K., ed. (1999), Culture and security. Multilateralism, arms control and security building, Frank Cass

Solingen E. (1998), Regional orders at century’s dawn, Princeton UP



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